Racconto completo

Tratto dalla raccolta "In attesa del Big Bang"

Di Alberto G. Gianinazzi

Edizioni Simple, Giugno 2013

 

Terra di betulla

 

Il testimone

 

Terra di betulla, casa del castoro
là dove errando va il lupo ancora.

 

Voglio tornare ancora sul mio bel lago blu

Bum bidiaidi bum bidiaidi bum bidiaidi bum

Bum bidiaidi bum bidiaidi bum bidiaidi bum

 

La mia canoa scivola leggera
sulle lucenti vie del grande fiume.

Il cuore mio nostalgico là nelle basse terre
vuol ritornare a voi monti del nord.

Là sulle rive del grande fiume
voglio piantare ancor la mia capanna.

 

Canto Popolare franco-canadese

(Trasmesso da: E. Pauline Johnson)

 

I ventilatori sono silenziosi, girano al minimo. Dal mio letto noto solo poche spie accese. Che sia la calma prima della tempesta? Si avvicina forse la fine del mondo? Certamente no! Sono pensieri fatui, tanto per divertirmi. La fine del mondo avvenne centomila anni fa e non la temo più.

 

Siccome oggi non ho da sbrigare compiti particolari, ne approfitterò per rimanere a letto più a lungo. Continuerò a dormicchiare e a fantasticare, crogiolandomi in questo dolce e caldo dormiveglia. Fuori forse nevica e fa freddo, oppure c’è un sole così forte e rovente da spaccare le pietre, ma può anche darsi che una fitta nebbia avvolga ogni cosa nel mistero. Perché mi preoccupo delle condizioni atmosferiche? Non posso comunque uscire. Dal giorno delle ultime misurazioni geografiche, i continenti dovrebbero essersi spostati di circa un chilometro. Ho viaggiato per un tratto di mondo senza aver fatto un solo passo. È un privilegio più unico che raro. Forse il Bosforo non esiste più, l’Africa ha raggiunto l’Europa e l’Italia ha perso il tacco e s’è curvata su se stessa.

 

Tutto quello che so, l’ho imparato dall’ordinatore, dalla sua intelligenza artificiale genialmente programmata, ma anche dall’umanoide: mi segue da quando sono nato. Oggi so che non è composta di cellule viventi come le mie. Lo capii il giorno in cui mi resi conto che non aveva bisogno d’andare come me al cesso. Fingeva di farlo. Per me questa scoperta fu traumatizzante. La misi ai ferri corti e la costrinsi ad ammetterlo: la verità era evidente. Da quel momento la nostra relazione è profondamente cambiata. Ho attraversato un periodo molto triste della mia vita, il più duro, ma col tempo ho capito e me ne sono fatto una ragione. Penso che lei non si fosse resa conto di quanto soffrissi. Ho sempre creduto che fosse fatta di carne e ossa come me. Non per questo ora le manco di rispetto. Continuo a contraccambiare l’affetto che lei mostra nei miei confronti. Oggi, guardandola, mi sembra impossibile che per così tanti anni mi abbia fatto da balia, seguendo attentamente ogni gesto e respiro della mia vita. Mi ha tenuto tra le braccia, mi ha cullato, cantato la ninnananna e educato. È stata una brava compagna di giochi. Lei si chiama Eva.

 

Dall’infanzia all’età adulta ho avuto tanti maestri, non di carne e ossa come me, ma immagini fluide, ologrammi creati dall’ordinatore. Per me è come se esistessero veramente. Vivono in un'altra dimensione, molto diversa dalla mia. Grazie a loro ho potuto vedere le città e i bellissimi paesaggi della Terra.

Uno in particolare m’è rimasto in mente: è un bosco di betulle bianche, situato sulla sponda di un fiume. Quanto mi piacerebbe poterlo vedere realmente e annusare l’odore degli alberi e dell’acqua!

 

I maestri m’impartivano le lezioni ed io prendevo diligentemente appunti, studiando per tanti anni. A volte m’interrogavano per controllare se avevo imparato la lezione. Non mi rimproverarono mai, anche se talvolta me lo sarei meritato. Furono molto pazienti con me.

 

Da qualche tempo l’elettronica visiva si è spenta. Perciò sono rimasto solo con le cose che mi stanno attorno e le immagini dei miei sogni. Anche Eva non dice più nulla: si limita a guardare ed ascoltare. Per me è come se fosse scesa la notte. Adesso parlo spesso con me stesso ad alta voce. Spero tanto che lei non perda anche l’udito e la vista. Credo che, in un certo senso, lei pensi, ma non sono sicuro se sia in grado di sognare. Non riesco a capire se prova emozioni forti come la paura, la rabbia o l’amore. Forse sa solo riconoscerne alcune sfumature, altrimenti non sarebbe mai stata capace di farmi crescere con tanta dedizione. Forse un giorno, se riuscirò a capire come fu costruita, la potrò riparare e le ridarò la parola.

 

Devo tutto ciò che mi sta attorno a un gruppo di persone che vissero più di centomila anni fa e che vollero che la razza umana continuasse a vivere sul pianeta, non appena questi si fosse decontaminato dalla radioattività che gli uomini stessi avevano provocato. Mi chiedo se l’umanità non avrebbe fatto meglio ad accettare passivamente l’ineluttabile fine ed estinzione del genere umano. Avrebbe così restituito quel che restava del pianeta alle razze animali sopravvissute al disastro, chiudendo la parentesi umana. Spero che non siano rimasti solo i topi a tenermi compagnia. Però, sempre meglio i topi della solitudine totale.

 

<Doveva essere molto bello e interessante per gli esseri umani poter vivere lassù ed interagire fra loro. Io invece, a parte Eva, non conosco nessun altro con cui potermi confrontare e dialogare. Mi sento egocentrico, egoista e fine a me stesso.

 

Solo nei sogni incontro esseri simili a me, che parlano e mi aiutano. Vivo tanti amori, storie e avventure diverse. È un mondo onirico e plastico, l’unico antidoto contro una depressione quasi cronica. Mi aiuta a sopportare la mia vita solitaria. Nei sogni gli scenari cambiano continuamente. Mi spiace molto non potere catturare le immagini e fermare le scene dei sogni: tutto scivola via, evapora come l’acqua nella mano: il bel viso sognato la notte prima è diverso da quello della notte successiva. Nei miei sogni le storie d’amore sono sporadiche, brevi ed effimere. Non riesco ad approfondirle perché in quel mondo il tempo non esiste.  

 

Adesso che ho discernimento, avrei il potere di porre fine alla razza umana: mi basterebbe suicidarmi. A volte ne sono davvero tentato, mi sento completamente solo. Mi trattiene unicamente il pensiero che, in tal caso, dovrei decidere di spegnere anche Eva, lei che mi ha passato la testimonianza di una razza di fatto estinta. Non potrei farlo mai. La potrei lasciare attiva, ma per lei sarebbe ancora peggio. È stata creata per me: sono la sua unica ragione di esistere. Sarebbe capace di cullare il mio cadavere tra le sue braccia anche per cento anni, nella speranza di una mia rinascita.

 

 

Creato e generato

 

Sì, fui creato e generato dall’uomo, così come creò, per me e per la sua salvezza, tutte le cose che vedo e che sento. Almeno, così era stato previsto, ma qualcosa andò storto. In questo esperimento azzardato dettato dallo spirito di conservazione, erano stati previsti altri zigoti, generati dalla fusione per fecondazione di due cellule sessuali, chiamate gameti. Erano stati programmati almeno un centinaio d’individui simili a me, ma, fra gli embrioni in vitro, io sono stato l’unico a svilupparsi e a crescere.

 

Ho solo vent’anni, a essere esatti: vent’anni, tre mesi, ventidue giorni e dieci ore. Sono nato sotto il segno del leone, in piena estate, sempre che le condizioni climatiche siano rimaste immutate. Mi pare strano che mi abbiano trasmesso un sapere esoterico. Esiste la costellazione del leone e il leone è il re degli animali, così come io sono il re di questo luogo. Al momento del disastro la stella Alrai indicava il polo nord celeste della Terra. Quella prima di Alrai si chiamava Stella Polare. Oggi a indicarlo è un’altra stella, di cui ignoro ancora il nome e che non sono riuscito ad ammirare nemmeno in un ologramma. Spero proprio di poterlo fare un giorno.

 

Durante quest’attesa eterna, durata più di centomila anni fino alla mia nascita, m’immagino che le macchine siano rimaste sempre attive così come i meccanismi e le spie luminose e che i robot della manutenzione si siano mossi in un perpetuo mobile, auto sostituendosi e tracciando un filo di storia che rimarrà occulta per sempre. M’immagino le umanoidi sotto vuoto, rannicchiate su se stesse, in uno stato d’immobilità assoluta, in attesa di mettersi in moto non appena l’embrione a loro destinato fosse diventato un feto con un cuore pulsante, cosa che avvenne solo per la mia Eva. È un vero miracolo che io sia vivo!

In uno stanzone ne ho viste altre simili a lei. Sono legate all’ordinatore. Potrei attivarle e penso d’essere in grado di farlo, ma non so se sarebbe una cosa saggia: girerebbero nei corridoi come fantasmi alla ricerca del loro pupillo e potrebbero scambiarmi con il loro mai nato. L’idea di quel caos mi trattiene. E poi, chissà come potrebbe reagire Eva. Lei mi vuole solo per sé, senza condizioni.

 

Ho imparato a conoscere il funzionamento di tutti gli aggregati della memoria centrale e ho capito perché sono così tanti. Me l’hanno insegnato essi stessi, insomma i loro ologrammi. Il tutto è costituito da cassettoni elettronici, che contengono la sintesi del sapere umano, digitalizzato al tempo del disastro. Sono tutti uniti, uno all’altro. Un elemento si accende su comando di quello già in funzione, non appena la durata di vita dell’aggregato che l’ha preceduto giunge a termine. La memoria è allora replicata. Non sarebbe stato altrimenti possibile garantire il perfetto funzionamento della memoria per un periodo così lungo. Ne ho contati più di cinquemila, ma adesso siamo agli sgoccioli. Ne rimangono solo due e ciò mi fa paura. Se si spegnessero, su di me scenderebbe una seconda notte, l’ultima, poi il cammino dell’uomo si concluderebbe definitivamente.

 

Ci sono robot che si occupano della manutenzione delle strutture, dei pozzi d’areazione, dei reattori di fusione nucleare, e di chissà di quante altre cose. Sono autosufficienti: si riparano o si auto-sostituiscono. Giungono dalla notte dei tempi. Penso che ve ne siano a centinaia e a volte me li ritrovo davanti quando gironzolo negli stanzoni.

 

Però…quanto sapere aveva accumulato l’umanità. Peccato che l’abbia usato anche per la sua autodistruzione. Beh, è inutile piangere sul latte versato!

 

Il luogo in cui vivo è immenso. Si estende per almeno un chilometro quadrato. Ci sono tanti cunicoli, che non so dove sboccano. Anche se vivo qui da tanti anni, lo conosco poco. Eva mi accompagna sempre quando vado in esplorazione. Forse ha paura che mi perda. Mi sembra che pure lei a volte rimanga stupita dalla sua vastità, anche se credo che ne conosca perfettamente la planimetria. Non posso accedere a tutti i locali. Alcuni sono ermeticamente chiusi, ibernati o sotto vuoto. Non ho neppure accesso a tutte le informazioni del compendio. Le ricevo poco alla volta, il tempo di capirle e assimilarle.

 

In questa zona non si è mai verificato un terremoto. Le mura sono rimaste perfettamente intatte senza crepe. Chissà quanto saranno cambiate le cose in superficie dopo tutto questo tempo! Non ricevo alcuna notizia da lassù. I rilevamenti geologici si arrestarono alcuni anni dopo il disastro. Non so per quanto tempo i pochi sopravvissuti riuscirono a sopravvivere quaggiù. Forse per qualche decina d’anni. Non c’era aria a sufficienza per tutti. Potrebbero essere stati seppelliti in una qualche galleria. Chissà dove andò a morire l’ultimo uomo.  Sono in grado di consultare la cartografia tridimensionale del pianeta e so, dove mi trovo. Chissà se il fiume, che scorre non lontano da qui, esiste ancora. Quanto materiale organico s’è depositato sopra la mia testa? Questa zona era una volta stepposa, ma forse il clima è così cambiato d’aver provocato la formazione di un ghiacciaio, oppure di una foresta. Quali e quanti animali sono sopravvissuti al disastro? Centomila anni non sono sufficienti per creare nuove razze, ma bastano per mutarle per derivazione genetica.

 

 

La fiamma

 

I ventilatori hanno ripreso a funzionare a pieno regime. Ho notato nuove spie accese. Forse è meglio che mi alzi. L’aria è cambiata, come se fosse diventata più fresca e meno viziata. Non ne conosco la causa, ma non tarderò a scoprirla. Ho sentito degli strani rumori provenire dallo stanzone accanto, come se si fosse aperta una saracinesca o qualcosa del genere. Non posso entrare nello stanzone in cui sono nato. Là ci sono gli embrioni che non si sono mai sviluppati: i mai nati.

 

Eva oggi mi sembra irrequieta. Il suo ventre emette delle vibrazioni strane che non ho mai sentito prima. Mi guarda come se avesse paura, ma so che è solo autosuggestione. Il suo viso rimane come sempre immobile, privo d’espressione. Ma non per questo l’amo di meno. Indossa una tunica grigia. Strano, non gliel’ho mai vista prima e mi sembra nuova. Forse oggi succederà qualcosa d’inaspettato. Forse si è aperta la porta del nuovo mondo. Un giovane come me, istruito, preparato, l’unico della sua razza, dovrebbe quindi alzarsi subito, vestirsi e correre a vedere quel che sta succedendo. Invece no, preferisco iniziare la mia giornata come se niente fosse, ripetendo il mio solito rituale. Il mio passato si è svolto qui, il mio presente si sta svolgendo qui e il mio futuro si andrà realizzando con la dovuta calma. Non vorrei mettermi a correre e affannarmi, per poi rimanere deluso. Non è la prima volta che mi succede. Adesso mi laverò dal viso il sonno della notte, poi mi laverò  con molta attenzione il resto del corpo. Eva è molto sensibile agli odori e se mi lavassi poco, protesterebbe. Poi mi metterò a tavola e aspetterò che Eva mi serva la colazione. Rimarrò seduto con lei e ci guarderemo negli occhi. Ci daremo la mano e poi insieme andremo alla scoperta del nuovo mondo, ammesso che sia pronto a essere riscoperto.

 

Alla la mia educazione non sono mancate lezioni di filosofia, mistica, religione e mitologia. Da bambino i miti, le leggende e le gesta eroiche mi trasportavano in mondi fantastici. Tante mie paure provengono da là. Io non ho nemici, nessuno che mi voglia fare del male. Io solo divento il mio nemico peggiore, quando mi abbandono a uno stato d’animo pessimistico e autodistruttore.

 

Un uomo dell’antichità disse: “L’opinione ha un’ala, la conoscenza due”. Io, di opinioni personali non ne ho molte, perché non posso confrontarmi con altri esseri umani. Sono soprattutto conoscenza, intelletto, logica. Alla mia storia manca un coro di personaggi. Soltanto Eva ed io, robot e ologrammi, macchine ed elettronica. Queste poche parole sintetizzano tutte le mie relazioni interpersonali. Se potessi avvertire la presenza di Dio o dei suoi Angeli, ammesso che esistano veramente, tutto cambierebbe. Allora la mia vita sarebbe diversa: io e Dio, io e la luce, io e le altre forze spirituali, io e l’illuminazione divina. Non sono stato educato per essere un mistico o un religioso, anche se la mia coscienza mi consiglia di credere in qualcosa, perché così facendo, potrei accettare più facilmente la mia sorte. Non ne sono del tutto convinto. Forse maturando mi risulterà più facile . Per adesso, le mie attività e le mie responsabilità sono tutte in funzione del presente, focalizzate su uno scopo preciso, una missione importante: portare il testimone al mondo in superficie.

 

Gestisco da solo la mia sessualità: nella mia vita non c’è spazio per una “sex-machine”. È una questione d’etica, anche se qualche desiderio represso per Eva l’ho provato. È rimasto solo un fantasma allo stato embrionale ed è bene che così sia. Ho forse altre scelte? Il dialogo interiore continua. Il mio inconscio si sviluppa ulteriormente con ogni pensiero. Ho notato che più sono silenzioso, più ricevo risposte alle mie domande e forse perciò Eva non dice una parola: ha capito che tacendo, io maturo, m’interrogo. Possibile che sia stata programmata così intelligentemente? Sto delirando? Ho la febbre?

Eva è anche la mia dottoressa, al bisogno. Si procura i medicinali in un’area cui io non ho accesso. Da quel luogo, a me sconosciuto, proviene anche tutto il mio cibo: cereali, legumi, tuberi, piante aromatiche e frutti. So che è un’area molto particolare: là avviene la fotosintesi clorofilliana. Mi chiedo come vi possa giungere la luce solare per trasformare l’acqua e l’anidride carbonica in composti organici. Forse non si tratta di luce naturale, bensì artificiale. Penso a delle lampade molto potenti. M’immagino una giungla in miniatura, piante tropicali, grossi serpenti e scimmie che vanno da una liana all’altra. Più volte, di nascosto, ho provato inutilmente a seguire Eva. Non posso oltrepassare la porta dello stanzone numero cinque: si apre solo per lei. Mi ha detto che ci sono ancora dei luoghi poco sicuri per un essere umano. Devo pazientare ancora un po’.

 

Oggi Eva si è messa davanti all’ordinatore. È rimasta lì immobile per un’ora almeno. So che l’ha fatto anche stanotte per un tempo molto più lungo. Sembrerebbe che i due abbiano molto da dirsi. Quanti misteri attorno a me!

 

Mi fa cenno di seguirla e mi tende la mano, pensa che io sia ancora un bambino. Mi sento imbarazzato. Se non gliela dessi, lei non muoverebbe un passo e mi guarderebbe con quei suoi occhi di madreperla, come se dentro di lei, dentro i suoi circuiti, ci fosse un mare profondo di sentimenti: mi è impossibile dirle di no! Con lei mi sento sicuro, anche se qui sotto non ho nulla da temere. Passiamo davanti ai primi quattro stanzoni, dove avrebbero alloggiato, se fossero nati, gli altri cento esseri umani, ciascuno con la sua rispettiva Eva. Mi fa uno strano effetto vedere gli stanzoni così deserti: tanti letti mai riscaldati da un corpo umano. Che tristezza! Avrei dovuto alloggiare nel primo camerone ma visto che sono solo, mi sono concesso il lusso di dormire nella sala degli ordinatori. Le loro luci, il loro leggero ronzio, mi tengono compagnia. Quando ero più giovane, mi divertivo a nascondermi in quelle grandi camere. Eva mi trovava immediatamente. Per questo penso che i suoi sensi siano molto più sviluppati dei miei. Probabilmente riconoscerebbe il mio odore a una distanza di centinaia di metri. Anche quando mi coprivo con tante coperte e cercavo di fuorviare il suo olfatto cospargendomi di grasso liquido, mi scopriva subito. Quando lei a sua volta si nascondeva, anche se mi diceva sempre in quale stanzone, impiegavo tantissimo tempo a ritrovarla. Una volta si nascose nello stanzone, dove erano conservate le altre “Eva”, ricoprendosi con la stessa plastica ,come se fosse ancora sotto vuoto. Penso che volesse farmi capire quanto lei sia importante per me. In un certo momento della mia vita, avevo provato un sentimento di ribellione, di rifiuto nei suoi confronti. Non la sopportavo più, sempre così premurosa, perfetta, chiara e precisa. Non posso dire che ero arrivato a odiarla, ma alcuni miei atteggiamenti nei suoi confronti erano ripugnanti. Così, quando vidi tutte quelle umanoidi, con i visi immobili, senza espressione e movimento, mi misi a piangere. Gridai a squarciagola. Corsi a destra e a manca. Le osservai tutte attentamente, a una a una. Non seppi riconoscere la mia Eva. Credetti d’averla persa, che lei stessa avesse spento i propri circuiti per punirmi per le pene che le avevo inflitto. Mi sentii solo, perso, alla mercé di me stesso, avvertii una grande fitta al cuore, come se una spina me lo avesse trafitto. Pensai di morire e solo in quel momento capii veramente il significato della morte. Poi sentii alle mie spalle dei rumori di plastica e voltandomi la vidi.

 

Disse: “Cucù, l’aprile non c’è più e maggio è ritornato al canto del cucù, cucù”.

 

Fui straordinariamente felice di riaverla. Da quel momento tutto è cambiato: la mia ambigua devozione s’è trasformata in vero amore. Oggi la riconoscerei fra mille volti uguali.

 

Ecco, finalmente, dopo vent’anni sono davanti alla porta che non ho mai potuto oltrepassare. Questa volta sono io a stringere con forza la mano di Eva, ma lei non dà segno di notarlo. Il suo viso è sereno, lei sa cosa troveremo dall’altra parte. Un raggio di luce rossa raggiunge la sua iride. Poi un secondo raggio raggiunge la mia. Rimango per un attimo abbagliato dalla luce smeraldina. La porta si apre sui due lati. Il tempo di oltrepassarla e già si richiude. Mi lascio alle spalle il mondo che per centomila e venti anni mi ha ospitato.

 

Percorriamo un lungo corridoio, poi svoltiamo a sinistra. Saliamo su una rampa. Un altro corridoio e un’altra rampa. Non sono mai stato così vicino alla superficie terrestre. Il cuore mi batte forte e sono emozionatissimo. Giungiamo davanti ad una porta di metallo, un po’ corrosa dalla ruggine. Basta una spinta per aprirla. Sembra che sia stata disigillata solo di recente. L’aria è secca. Avverto un odore strano e insolito. Eva si muove senza titubanza, lei vede anche nel buio. Io la seguo con prudenza. C’è una fioca luce che giunge dal corridoio. La mia vista si sta adattando all’oscurità. Anche questo è uno stanzone grande quanto gli altri. Intravvedo le sagome di scaffali e armadi: ce ne sono a centinaia. Sui ripiani ci sono degli oggetti, che non riesco ancora a riconoscere. Gli esseri umani ne fabbricarono un’infinità, alcuni pratici e utili; altri completamente inutili; ancora altri a carattere puramente decorativi, per cullarsi nell’armonia della vita. Non ci sono lampade. Eva si ferma davanti al primo scaffale. Allunga la mano verso un ripiano e afferra un sacchetto colmo di tubi bianchi e lucidi. Me lo porge. Sono un po’ incerto e indugio nell’aprirlo. Sotto sua insistenza, lacero il sacchetto, che si gonfia un po’ riempiendosi d’aria. Afferro il cilindro e mi accorgo che è una candela di cera. È la prima volta che ne tengo una tra le mani. Alzo lo stoppino. Sulla cera è rimasto appiccicato un moscerino, piccolo, piccolo. Eva mi porge un altro sacchetto e alza il dito in segno d’avvertimento. Attraverso l’involucro vedo degli oggetti che hanno la forma di un parallelepipedo. Sono avvolti da un foglio d’alluminio. Lacero l’involucro e con mani tremanti ne tolgo uno dall’imballaggio argentato. È una scatoletta. Leggo a malapena la scritta: fiammiferi. Ho paura: non ne ho mai fatto uso. Li porgo a Eva. Lei sa come utilizzarli. Apre la scatola, toglie un fiammifero e lo strofina sul lato ruvido della scatoletta. Ne scaturisce una fiamma tremolante e incerta come me. Sono esterrefatto e meravigliato. Lei avvicina lentamente la fiamma alla candela che tengo in mano. Lo stoppino dopo un po’ d’esitazione si accende, illuminando il nostro viso. È come se mi avesse regalato la fiamma della vita. L’atmosfera è surreale, magica e mistica. È per me un vero testimone, caldo, luminoso, giunto dalla notte dei tempi, per illuminare la mia notte, quella di un essere umano solo.

 

Ritornando nella mia zona consueta, avverto che qualcosa è cambiato. Eva mi ha ridato la speranza. Non è sfuggente come un ologramma o un sogno. È viva, è luce vera, frutto di un'alchimia che non avevo mai conosciuto. Ora brucia in me, nel mio cuore, nelle vene e arterie, nei capillari e nei muscoli. Illumina la mia mente e mi apre nuovi mondi, rimasti finora nascosti nella mia ombra di sempre.

 

 

Le corde dell’arpa

 

Tutte le volte che entro nello stanzone degli oggetti è come se aprissi il vaso di Pandora o una scatola cinese. Passo delle ore a togliere le cose dalle loro plastiche. Eva mi accompagna e si siede. Rimane tranquilla per ore e ore, senza fare il minimo gesto o movimento. Amo la sua pazienza. So che lei ha già catalogato ogni oggetto e ogni forma. Ne conosce le dimensioni, la materia e l’uso, ma non mi aiuta. Devo scoprire il loro uso da solo, fa parte della mia istruzione. Ne ho trovati alcuni veramente strani e solo consultando l’ordinatore sono riuscito a scoprire per quale fine furono fabbricati. Porto sempre con me una tavoletta elettronica che mi permette di fotografare l’oggetto. Poi lo cerco nella memoria. Ce ne sono di tutte le dimensioni, anche minuscoli. Ce ne sono a migliaia. Furono catalogati in base all’uso: per la cucina, per la pulizia, per le costruzioni, per le riparazioni, per la medicina, per le scienze e così via. Negli armadi ci sono tanti libri. È così inconsueto tenere tra le mani questi testi scritti, in forma cartacea, che fino ad oggi ho consultato solo elettronicamente. Mi piace il fruscio della carta. Furono catalogati per tema. C’è un armadio che contiene testi considerati sacri: la Bibbia, il Corano, i testi Veda e molti libri gnostici, mistici ed esoterici. Non sento il bisogno di leggerli dall’A alla Zeta. D’altronde mi manca il tempo e ci sono cose più importanti da conoscere. Mi accontento di svogliarli e di soffermarmi su una pagina qualsiasi. Leggo passaggi sublimi, ma anche tante contraddizioni e costrizioni, che non mi piacciono per niente. Questa lettura casuale, disordinata e parziale mi fa pur sempre scoprire un denominatore comune: Amore e Luce.

 

Ecco se diventassi un predicatore, insegnerei solo queste due parole da anteporre all’odio e al buio. Forse mi limiterei a dire: “ Non fatevi del male, non spaventatevi, ma aiutatevi a vicenda”. Potrebbe bastare questa frase a far sì che l’uomo predatore possa convivere con i suoi simili senza troppi conflitti? Forse è meglio non dire niente e lasciare che le cose avvengano semplicemente. Ho letto una frase di un testo medioevale:

 

Se vedo una montagna, lei mi pare tale, se mi avvicino, non lo è più, ma quando vi sono sotto, è di nuovo una montagna”.

 

Perciò preferisco le emozioni e le sensazioni che sorgono spontanee, senza bisogno di filtrarle o di ragionarci troppo sopra, limitandomi a osservarle da spettatore. Capto l’essenza, seguendo ciò che mi dice il cuore.

 

Questo locale, che illumino sempre con le candele, è come una risacca. Ogni volta che apro la pagina di un libro o che guardo un nuovo oggetto, un’onda di storia s‘infrange contro di me per rifluire immediatamente verso la sua origine. Ho anche scoperto un piccolo locale adiacente. In un primo momento l’avevo soprannominato “la stanza degli orrori”, ma poi ho capito. Vollero lasciarmi una testimonianza della biodiversità. Quando aprii la porta la prima volta, avvertii un odore nauseabondo. Invase le mie narici in modo così penetrante, che mi sentii male. Adesso l’aria è più respirabile. Eva non vuole entrarci. Ci sono numerosi animali imbalsamati. Tra i rapaci ho subito riconosciuto l’aquila reale, con le ali aperte. Fra i roditori il castoro e la marmotta. Ho visto alcuni rettili perfettamente conservati nell’alcool. Ci sono perfino delle farfalle messe sotto vetro. In un angolo, ho scoperto la tipica rappresentazione della morte: uno scheletro umano. La prima volta che lo vidi, rimasi impressionato al punto da sognarlo la notte successiva. L’aquila, anche se Eva era contraria, l’ho portata nel mio dormitorio. Le sue piume sono bellissime. Mi piacerebbe poter volare come lei nei miei sogni. Vorrei che venisse e mi dicesse:

 

“Vieni, ti porterò nella Terra di betulla, casa del castoro
là dove errando va il lupo ancora.

 

Voglio tornare ancora sul mio bel lago blu

Bum bidiaidi bum bidiaidi bum bidiaidi bum

Bum bidiaidi bum bidiaidi bum bidiaidi bum”.

 

In un angolo dello stanzone furono depositati strumenti musicali di forma e grandezza svariata. Ho ascoltato tanta musica in vita mia e so perfino leggere le note. L’unico strumento che suono è un cilindro di metallo sul quale ho teso e fissato della carta plastificata. Ho imparato a battere tutti i ritmi. Ciò infastidisce molto Eva, perché lei è molto sensibile ai rumori. Sentirebbe il ronzio di un insetto a distanza di dieci metri. Mi piacciono tutti gli strumenti: a percussione, a corda, a fiato. Ce n’è uno in particolare che ha attirato la mia attenzione: è un’arpa e ha qualcosa di magico. Una volta erano soprattutto le donne a suonarla. Penso che il suono si avvicini di più al loro stato d’animo, anche se non le conosco veramente. Forse sono affascinato dallo strumento, perché me le ricorda. Immagino delle dita sottili pizzicare le corde per farne scaturire una musica melodiosa e soave. Ho portato diversi strumenti nel mio locale e ho chiesto a Eva d’imparare a suonare l’arpa. Ci sta provando, ma con fatica. I suoni, gli accordi e gli arpeggi mi sembrano corretti, ma le manca la sensibilità necessaria per lo strumento. Ho strimpellato tutti gli strumenti. Da una semplice canna di bambù con i fori, probabilmente un flauto molto antico, non sono riuscito a emettere neppure una sola nota. Devo ancora imparare ad appoggiarvi correttamene le labbra, con l’angolazione giusta: mi ci vorrà pazienza.

 

Con il passar dei giorni, la mia stanza si sta riempiendo di oggetti. Ne ho di tutti i tipi. A volte uno sparisce. Quando succede, so che è stata Eva a prenderlo e a riportarlo dove avevo trovato. Non vado a riprenderli: non vorrei abusare della sua pazienza. L’altro giorno s’è trattato di una serie di coltelli ben affilati. Qui non ne ho di sicuro bisogno: li ho presi perché mi piaceva il loro manico di madreperla. Eva non vuole che mi faccia del male e perciò li ha ripresi, ma questa volta li ha nascosti. È la prima volta che si comporta in maniera diversa da come fu programmata: lei tiene tutto perfettamente in ordine e rimette gli oggetti sempre al loro posto.

 

Nello stanzone ho trovato anche dei dipinti. Mi piacciono molto. Ci sono nature morte, raffigurazioni di paesaggi, ritratti, quadri figurativi, geometrici e astratti. Mi affascina la bravura con cui gli artisti seppero stendere il colore, provocando emozioni forti in chi osserva le loro opere. Ho trovato una scatola di colori a olio e della tela di lino, ben conservati. Così adesso potrò dar sfogo alla mia creatività in un’orgia di colori.

 

In uno dei corridoi ho incontrato un robot addetto alla ventilazione. In passato la ventilazione in questi locali era inesistente. Per quanto ne sappia, è stata rimessa in funzione solo negli ultimi anni, poco prima della mia nascita. Quando incontro i robot, loro si spostano per permettere a Eva e a me di passare, a meno che stiano eseguendo un lavoro che non può essere interrotto all’istante. Ho notato che il robot era sporco di terra. Era la prima volta che ne vedevo di così fresca. È veramente strano. Dovrei fare alcune indagini e scoprire da dove vengono i robot. Qualcosa mi dice che si sono recati in una nuova area, forse di scavo. Sono sicuro che l’aria in superficie ora sia respirabile. C’è troppo andirivieni.

 

Oggi Eva s’è assentata per parecchie ore. Non ha dimenticato d’avvisarmi prima; mi ha fatto capire di non preoccuparmi, molto presto saprò il perché. Per rassicurarmi ha pizzicato le corde dell’arpa, come non aveva mai fatto prima ed io mi sono calmato.

 

 

La mela

 

Questo luogo in penombra è la mia casa, la mia prigione, ma anche il mio rifugio. Qui sono nato e cresciuto sotto vigilanza, in libertà condizionata. Eva, questa mattina, ha aperto i cancelli consegnandomi le chiavi, le “password” del manufatto e una mela appena raccolta e lavata con cura. Quando me l’ha data, lei sapeva che con quel gesto mi offriva la vita sulla Terra. Finalmente potrò uscire dalla mia oscurità e salire in superficie, guardando il pianeta, il sole, la luna e le stelle.

 

Dopo un breve momento di sublime felicità, mi ha colto una paura folle e insospettata. Qui conosco tutto o quasi. Sopra è tutto da scoprire. La Terra è immensamente grande, senza frontiere artificiali, intatta, come lo fu all’alba dell’umanità. Lassù, a centinaia di metri sopra la mia testa, si consumò il disastro della razza umana.

Perciò ho deciso che non salirò in preda all’eccitazione, correndo con bramosia, come se qui sotto tutto puzzasse. L’idea di potere scegliere fra i due mondi, fra quello di sopra e questo, mi libera l’animo. È come se il mio sogno adolescenziale, quello di poter rivedere il sole, sia già stato esaudito.

 

Finalmente, grazie a Eva, ho potuto accedere allo stanzone accanto al mio. Quando sono giunto davanti alla porta, si è spalancata di colpo. Dentro il locale ci sono  un centinaio di incubatrici. Ho visto quella aperta, da cui Eva mi aveva tolto con le sue stesse mani. Mi sono venute le lacrime agli occhi. Ho osservato quella accanto, ancora ermeticamente chiusa, come d'altronde tutte le altre. Avrei voluto aprirla, ma la mano di Eva mi ha trattenuto. Mi ha guardato negli occhi molto seriamente, insomma così m’è sembrato. Poi mi ha sussurrato una frase all’orecchio:

 

Non toccarla, è la nuova vita pronta per germogliare”.

 

Il fatto che Eva mi parlasse di nuovo dopo tanto silenzio mi ha riempito di felicità, ma, nello stesso tempo, uno strano sentimento di gelosia mi ha colto all’improvviso. Quel sintagma “nuova vita” mi ha raggiunto come un colpo di martello sull’incudine. Mi sono reso conto che sono previste, in un futuro ormai prossimo, altre nascite e che non potrò più dividere il sottosuolo solo con Eva, come due naufraghi su un’isola deserta. Altri verranno e reclameranno la loro parte. Questa solitudine, che mi è sempre sembrata asfissiante, ora non lo è più. Invece di saltare dalla gioia, di gridare dalla felicità, di raccontare ai quattro muri del sottosuolo o ai quattro venti appena sarò lassù, che l’umanità riceverà ancora un’opportunità, m’è venuto l’amaro in bocca. Sarà una questione di nove di mesi, poi novantanove umanoidi, si occuperanno di altrettanti neonati di entrambi i sessi e questo rifugio pullulerà di gente. Questa visione mi spaventa e mi fa pena.

 

Pensandoci bene, mi chiedo perché provo sentimenti così egoistici e vili. Forse è perché non ho mai imparato a condividere con altri esseri umani. Potrò mai impararlo?

Un dubbio mi assale, un pensiero che mi agghiaccia come la morte. Io stesso potrei porre fine a ogni speranza di sopravvivenza per l’uomo su questo pianeta. Potrei chiudermi nello stanzone e aprire tutte le incubatrici, bloccando ogni processo di nascita e di crescita. Chi altro su questo pianeta ha la legittimità di farlo? Io sono stato cresciuto all’ombra di ogni malvagità, quindi potrei decidere in piena cognizione di causa. Potrei farlo, terminando l’esperimento “specie umana” e rimettendolo al sapere collettivo universale, sempre che ne esista uno. Per un attimo, potrei rivestire il ruolo di quel Dio che nessuno ha mai visto, anche se per me è solo una parola vana, priva di significato. Non penso che avrei problemi di coscienza e non mi riterrei per questo un assassino. L’umanità s’è già dimostrata incapace di gestirsi una vita degna di questo nome, in armonia con la natura, su questo Pianeta. Probabilmente ripeterebbe gli stessi sbagli, passando da un conflitto all’altro, senza interazione con la natura.

 

Mi è bastato lo sguardo indagatore di Eva, per rendermi conto di quanta falsità ci fosse nei miei pensieri. È la gelosia verso i futuri nascituri che alimenta il mio spirito nichilista. Perciò sono più che mai deciso ad andarmene, lasciando loro questo spazio. Così eviterò un confronto diretto.

 

Ho studiato in dettaglio la cartografia del luogo. Non ci sono montagne nelle vicinanze. Il primo dosso dista circa dieci chilometri. Da lassù potrò farmi un’idea migliore dei dintorni. Mi ci vorranno almeno quattro ore per raggiungerlo e salirci. Dovrò pensare anche al ritorno. Non so come reagiranno le mie gambe allo sforzo, né i miei occhi alla luce del sole. Non so che tipo di vegetazione e di ostacoli incontrerò, magari dei fossati, delle zone paludose o degli animali feroci. Ci sono troppe incognite, perciò una volta in superficie non mi azzarderò ad allontanarmi troppo. Procederò a piccoli passi. Non ho bisogno di cercare l’avventura: la mia vita è già una grossa avventura. Rimarrò qui sotto ancora per qualche giorno. Migliorerò la mia istruzione e mi preparerò minuziosamente all’esplorazione della superficie. Forse Eva vorrà accompagnarmi. Non ne sono certo: non penso sia stata programmata per allontanarsi dal sotterraneo. Lei è legata a esso, come con un cordone ombelicale. Io no. Penso che non mi sarà difficile andarmene, una volta abituato alla nuova vita. D’altronde non ci sarà più nulla a legarmi a questo luogo, tranne l’amore per Eva, che non potrà però impedirmi d’oltrepassare i limiti del conosciuto. Lei capirà: mi ha donato la mela della libertà.

 

 

Apriti sesamo

 

L’altro giorno andai  a vedere come si sviluppano gli embrioni. Alcuni sono già diventati feti ed hanno un cuoricino che batte. Se rimanessi qui dopo la loro nascita, potrei seguirli e fare loro da maestro, da guida. Con la mia esperienza e la mia conoscenza potrei ottenere con molta facilità il loro rispetto e la loro obbedienza. L’idea d’essere per loro come un Re mi lusinga. Forse fra quei futuri esseri umani c’è anche la mia futura amata, la prescelta. Se mi armassi di pazienza, un giorno potrei amare una donna vera.

 

La notte scorsa ero molto agitato. Per la prima volta in vita mia, ho avuto paura di dormire da solo e allora ho pregato in silenzio. Poi ho chiesto a Eva di rimanermi vicino. Lei si è sorpresa, perché è da anni che non succede più. Era solita farlo quando ero piccolo. Senza una parola, si è coricata accanto a me e mi ha stretto tra le braccia.

Da quando so che me ne potrei andare, i miei sogni sono cambiati. Ci sono ombre che piano piano si avvicinano, incutendomi paura. Sono spiriti di paure inconsce, senza un volto preciso, che reclamano l’alba di un nuovo giorno, una via novella, un’illuminazione. Ho detto loro che non me ne voglio andare, che sto bene dove sono, aspettando i nuovi arrivi. Per invogliarmi ad alzarmi, mi hanno fatto vedere la neve. Quanto è bella la neve! Nel sogno di questa notte una pietra a forma di parallelepipedo è caduta dal cielo andando a sbattere violentemente sul pavimento del mio sogno. Risento ancora nel ricordo quel tonfo che mi ha svegliato di soprassalto. Sembra che vogliano obbligarmi a partire. Non posso più continuare ad aspettare, rifugiandomi in questo stanzone  e nei miei sogni. A colazione Eva ha sentito che qualcosa in me è cambiato. L’ho vista triste, beh, così m’è parso. Ho deciso di salire in superficie. Non so se riuscirò a farlo in giornata. Ci sono ancora tante aree inesplorate in questo sotterraneo.

   

Sono sicuro che Eva mi accompagnerà in questa spedizione. Nello zaino porterò il necessario contro ogni eventualità, indumenti e viveri a sufficienza. Sarà pesante. Se dovessi passare la notte altrove, non soffrirò né la fame, né il freddo, sempre che la temperatura non scenda sotto lo zero. Ho cercato di procurarmi una mappa del sotterraneo, ma non l’ho trovata. Ho chiesto a Eva di farlo, ma mi ha risposto che non è previsto nei suoi compiti. Ha memorizzato solo alcune aree, le più importanti per il nostro vettovagliamento. Perciò ho deciso di disegnare io stesso la piantina, a mano a mano che avanzeremo in questo viaggio verso l’incognito sia dentro che fuori di me.

 

Do inizio alla nostra odissea, mettendomi lo zaino sulle spalle e fissandolo ben bene, tirando le bretelle per impedirgli, a ogni brusco movimento, di dondolare come un pendolo, facendomi perdere l’equilibrio. Il primo tratto del cammino mi è molto familiare, senza sorprese. Eva mi accompagna. Non parla, ma mi dà la mano, anche se per un solo attimo. Con quel semplice gesto, m’invoglia a muovermi. Mi guardo indietro per un’ultima volta, poi mi volto, senza rimpianti, verso il futuro che mi aspetta. Quando passo davanti allo stanzone con le vestige umane, divento febbricitante. Porto dentro di me tutti quegli oggetti che hanno plasmato l’ultima parte della mia personalità.

 

La mia canoa scivola leggera
sulle lucenti vie del grande fiume
.

 

Non ho mai oltrepassato la seconda rampa: da qui inizia l’incognito per me. Eva invece conosce bene la strada, sa esattamente dove andare e si muove sicura nel susseguirsi dei cunicoli che svoltano ora a destra, ora a sinistra. Mi accorgo che seguiamo un grosso tubo fissato al soffitto, deve essere quello dell’aereazione. Su un foglio di carta segno rigorosamente le svolte, le rampe e, in maniera approssimativa, le distanze percorse. Le rampe sono poco ripide, salgono zigzagando. Il cunicolo s’interrompe davanti ad una porta scorrevole chiusa ermeticamente. Un fascio di luce colpisce le nostre iridi e la porta si apre sui due lati. Una campanella si mette a suonare, come se volesse annunciare il nostro arrivo imminente.

Le luci si accendono. Dopo aver attraversato un piccolo atrio, entriamo in un grande locale: è un luogo di culto. Il pavimento è interamente ricoperto da tappeti orientali in perfetto stato. Depongo lo zaino, mi sdraio a terra e accarezzo la lana colorata. Chiudo gli occhi per un attimo e mi sembra di sentire riecheggiare ancora i passi e le preghiere arcane. Mi rialzo e mi guardo meglio attorno. Ci sono parecchie nicchie con degli altari. A giudicare dagli oggetti, molto differenti l’uno dall’altro, qui praticarono vari culti religiosi. Ci sono un crocefisso e gli incensieri. Riconosco la fonte battesimale, le Sûre del corano incorniciate e sotto vetro. C’è una statua che rappresenta il Buddha e un'altra la Dea Kali, con le quattro braccia che reggono strumenti di distruzione, di purificazione e di trasformazione. C’è anche un luogo che penso fosse stato adibito al ritiro spirituale; è molto sobrio, privo di qualsiasi immagine religiosa. Passo la mano sulle pareti: sono di cristallo di sale. Qui mi sento molto bene. Eva tace, si limita a guardarsi attorno, come se anche lei lo facesse per la prima volta. Scopro una piccola cripta con tante urne cinerarie senza nome. Penso che contengano le ceneri delle persone che vissero quaggiù prima del lungo silenzio. Forse l’ultimo uomo andò a morire in superficie, lasciando alla natura il compito di disperdere le proprie spoglie.

 

Riprendo l’esplorazione, voltando le spalle a questo luogo di raccoglimento. Non appena lasciamo il locale, le luci si spengono.

Attraversiamo un’area che nel passato, così mi pare, fu usata per la decontaminazione radioattiva. C’è un rivelatore di particelle radioattive geiger ancora in funzione.

 

Tutto mi sembra ancora ermeticamente chiuso e sigillato. Ho l’impressione che da un’eternità nessuno venga più qui, neppure le macchine. È possibile che usino altri cunicoli. Stiamo aspettando: sono sicuro che Eva sa il perché. Mi guarda, ma non dice nulla. L’attesa si fa lunga. Mi siedo e guardo le bocche delle docce di decontaminazione. Forse la mia prossima doccia sarà acqua piovana vera, che scenderà dal cielo. Chi è stato qui l’ultima volta, non stava uscendo ma entrando, sapendo che questo luogo sarebbe stato la sua destinazione finale, la sua tomba. Io ho molte più speranze.

 

Tutto è possibile e ancora fattibile per me: basta solo che questa porta d’acciaio si apra per farmi passare. Le cellule elettroniche del locale mi scrutano. Apro il più possibile l’occhio, mostrando il meglio della mia iride, ma niente. Continuo ad aspettare… Mi sembra che quest’attesa senza fine dipenda da Eva. Sarà lei a decidere il momento, quando sarò pronto. La guardo intensamente, cercando spiegazioni, un perché, una risposta.

Finalmente, la sento sussurrare il binomio magico, delle “Mille e una Notte”.

 

«Apriti Sesamo».

La porta si spalanca e ………..

 

il mio cuore nostalgico, là nelle basse terre, vuol ritornare a voi monti del nord. Là sulle rive del grande fiume voglio piantare ancor la mia capanna.

 

FINE